Fascinazioni

Maurice Blanchot

 

La voce e non la parola.

Bisognerebbe domandarsi perché, in un’epoca in cui la letteratura tende in modo dichiarato a prendere il sopravvento in virtù dell’esigenza romantica, sia privilegiata proprio la voce, e perché il privilegio della voce si imponga all’ideale poetico. La voce e non la parola. In tale prospettiva, la voce non è il semplice organo dell’interiorità soggettiva, al contrario, è la risonanza di uno spazio aperto sul fuori. Beninteso, essa costituisce una mediazione naturale, e in virtù di questo rapporto con la natura denuncia l’ordine artificiale di un linguaggio socializzato. Essa è anche responsabile della fede nell’ispirazione che risolleva il logos divino e fa del poeta non più qualcuno che scriva dei versi secondo l’ordine del bello, ma qualcuno che sente e si consuma lui stesso nell’intelligenza di una comunicazione immediata. Tuttavia il privilegio della voce frutta alla letteratura un’esperienza indecisa a cui essa si sveglia come se fosse sulla soglia dell’estraneità. La voce libera dalla parola annuncia una possibilità anteriore ad ogni dire e persino ad ogni possibilità di dire. La voce libera dalla rappresentazione, anzi, libera in anticipo dal senso, e tuttavia riesce solo ad affidarsi alla follia ideale del delirio. La voce che parla senza parole, silenziosamente, attraverso il silenzio del grido, anche quand’è più interiore tende a non essere la voce di nessuno: che cosa parla quando parla la voce? È una cosa che non si situa in nessun posto, né nella natura, né nella cultura, ma si manifesta in una zona di raddoppiamento, di eco e di risonanza in cui non già qualcuno, ma questo spazio ignoto – il suo accordo scordato, la sua vibrazione -, parla senza parole. (A questa voce è stato dato un organo da Hölderlin, che nella sua follia «declamava» alla finestra). La voce ha un ultimo carattere: non parla in modo duraturo: fuggitiva, destinata all’oblio in cui si compie senza tracce e senza avvenire, ciò che da essa è proferito rompe con la perennità del libro, con la sua chiusura, con la sua orgogliosa stabilità, con la sua pretesa di racchiudere il vero e di trasmetterlo rendendone padrone anche chi non l’abbia trovato. È una parola che scompare appena detta, sempre già destinata al silenzio che contiene e da cui viene, una parola in divenire che non si trattiene nel presente ma si vota, e vota la letteratura che essa anima, alla sua essenza che è la sparizione. Forse è anche, almeno in apparenza, sempre a lato delle regole e al di fuori della regola; è anche al di fuori del dominio, sempre da riconquistare, sempre nuovamente muta. […]


M. Blanchot, La conversazione infinita. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere». Einaudi 2015. Introduzione di Giovanni Bottiroli. Traduzione di Roberta Ferrara. 

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