Blaise Cendrars, Napoli. Una canaglia, a cura di Bruno di Biase
NAPOLI
UNA CANAGLIA
Allo schifoso e geniale
Curzio Malaparte,
autore di «Kaputt»,
in ricordo della Legione,
in omaggio al giovane garibaldino
in camicia rossa della foresta
dell’Argonne,
al fantaccino della montagna
di Reims,
e la mia mano amica al deportato delle Lipari
BLAISE CENDRARS
(Napoletano d’occasione)
Napoli, dove ho trascorso la mia più tenera infanzia. Napoli, dove ho consumato le mie prime culatte sui banchi della Scuola Internazionale del dottor Plüss (sic). Ancora un tedesco. Ma che vadano tutti al diavolo!
A Napoli non c’è solo il popolo del Basso Porto che fatica e s’affanna da toglierti il fiato, nella cucina del demone pagano, nel dedalo di scuri vicoli del vecchio quartiere: la solfatara del Vomero, divisa da mio padre in lotti moderni, manda sussulti, brucia e romba e molla sbuffi di vapore tra due eruzioni del Vesuvio, la lava schizza dalle cantine, dove fermenta dai Tempi Antichi, il fiore di zolfo chiazza i fiori d’arancio, i grappoli e i pampini dei giardinelli; persino in alto mare, in quel torpido catino indaco, i grandi transatlantici diretti al porto arrancano e travagliano e annaspano e dan strappi a dritta e a manca per non affondare, lasciarsi andare di culo e colare a picco, calare obliquamente fino alla fucina sottomarina dove Nettuno magnetizzato sogna e delira, con l’animo folgorato dai fari e le cervella che fanno da pastone per l’appetito vorace dei pesci abissali, mostri premitologici.
Alla partenza da Alessandria, nostro padre ci aveva presentati al comandante Agostini, un sardo malazzato, febbrile, con la barba e i capelli che congiunti alle folte sopracciglia, nerissime, formavano una maschera villosa sotto l’alto berretto dorato, e il comandante aveva affidato me a un marinaio di coperta, Domenico, un gigante, mentre mio fratello e mia sorella giocavano nel salone del grande vapore e mamma faceva salotto nella cabina di Agostini che dava sulla passerella.
Eravamo a bordo dell’Italia, il primo transatlantico italiano che partendo dal capolinea Alessandria faceva scalo al Pireo, a Salonicco, a Brindisi e a Napoli (dove noi saremmo sbarcati e dove mio padre ci avrebbe raggiunti col prossimo battello); filava poi a Genova, il suo porto di immatricolazione, faceva il pieno, toccava Marsiglia, Barcellona e Malaga, e da lì si lanciava verso New York a una velocità record (11 giorni di traversata!), e c’era l’accordo, tra me e Domenico, che a Napoli il marinaio che mi aveva in custodia mi avrebbe nascosto da qualche parte a bordo, e che saremmo sbarcati poi insieme a New York, dove io e il gigante avremmo abitato in incognito nel più alto dei grattacieli. Gli avevo dato la mia paghetta e vuotato il salvadanaio.
Era il 1891 o 1892, avevo 4 o 5 anni, e non si notava che me a bordo, scortato dal mio marinaio, il buon gigante, che esaudiva tutti i miei desideri, issandomi sulla coffa dell’albero di mezzana, calandomi in fondo alla sala macchine dal passo d’uomo, portandomi a spasso tra le macchine e tutt’in fondo al tunnel degli alberi di trasmissione, lì dove bisogna infilarsi strisciando per raggiungere il punto in cui si sentono gorgogliare le eliche, vibrare lo scafo come una membrana, scorrere l’acqua profonda del mare nell’orecchio e, seduti nel centro di quel punto ideale e di precario equilibrio, si è partecipi di ogni movimento della nave, che come una bestia riluttante poggia a sinistra, poggia a dritta, fa stridere i bozzelli del timone, incassa schiaffi, pacche, botte, calca sulla prua per non impennare, sprofondare di culo, colare a picco, si dibatte, arranca e travaglia. E nelle profondità di quel tunnel, sotto una lampadina elettrica che la illumina e vi si riflette, si vede luccicare un’acqua torbida, in un pozzetto che si riempie d’acqua di mare che trasuda dalle guarnizioni e dai manicotti delle eliche e dell’olio caldo che cola a goccia a goccia dagli alberi di trasmissione: questa è la sentina, dove si gettano i bambini cattivi, mi diceva Domenico, con un’aria da gattomammone. Io però non avevo paura, il gigante mi teneva forte per la mano – e poi, non era mio complice? Non dovevamo andare insieme a New York? Non eravamo amici, noi due?
Domenico mi parlava molto di New York quando facevamo merenda in cambusa, dove c’erano sempre due o tre marinai che fumavano la pipa ascoltandolo parlare, ma nulla ne ho conservato, distratto com’ero da quegli uomini tutti più o meno barbuti, che atteggiavano la faccia a quella inquietante del comandante. Invece nulla ho dimenticato di quello che Domenico raccontava del suo paese natale, Taormina, la città dipinta, la sera, quando ottenevo l’autorizzazione di andare a dormire con lui nella cabina dell’equipaggio, dopo una dura lotta con mamma.
– È la città dei mostri, diceva attaccando la sua presa di tabacco che aveva a lungo plasmato tra i palmi e che doveva durare tutta la notte e fino all’indomani sera, è la città dei mostri marini, come quelli che si vedono a Napoli, vivi, all’Aquarium, e in ogni parte del mondo, nelle baracche delle fiere, dove vengono esposti, quelli piccoli, allo stato morto in boccali gelatinosi o essiccati, quelli più grandi, su un letto di varech dietro una vetrina con divieto di toccare! A Taormina non ci sono scantinati. Da noi, sotto ogni casa s’apre una grotta sottomarina piena dell’andirivieni e del brusio o del muggito delle onde. Quelle grotte sono profonde. Dai tempi antichi lì si gettano i fanciulli che vengono al mondo. Quelli che non sanno nuotare se li mangiano le murene. Gli altri scappano al largo e ritornano da adulti sulle coste: sono i tonni, i marsovini, i narvali, tutti quei mattacchioni che ridacchiano nella tempesta e che si fanno catturare con la bonaccia a centinaia di migliaia. Le ragazze, quelle maligne, si lasciano andare a picco e poi se sono nubili risalgono in superficie. Hanno la testa molle, i denti marci, un buffo muso e una voce d’oro. Le chiamano sirene, e si dice che siano delle principesse. Ma guai al pescatore che fa all’amore con una sirena, genera lo squalo martello, il pesce sega o a succhiello, solo esseri con due teste, perché le sirene sono senza cervello e cantano delle stupidaggini. Quanto ai bambini che fan ritorno nella loro culla dopo essersi battuti con le murene, spesso restano sfigurati per il resto dei loro giorni, oppure sfoggiano strane cicatrici, o gli vengono strane malattie che gli marmorizzano il corpo, ma i sopravvissuti saranno più tardi i migliori marinai del Mediterraneo e i piloti più intrepidi e, quando ritornano, ormai uomini, dalla loro lunga circumnavigazione per prendere moglie a Taormina, sono loro che dipingono le case e coprono i muri della città di graffiti indecifrabili che raccontano le avventure del mare e che sono delle profezie. Ma Taormina si spopola. L’acqua è un sogno, e il cielo, con tutto quello che contiene mattino e sera d’astri, di vento, d’uccelli e di fumi, è un miraggio che ci inganna sulla fuga del tempo. Ci sono uomini dalle nostre parti che si buttano a mare per andare a pescare una stella nell’acqua. L’Oceano è una menzogna…
Ma l’equipaggio, tutti quegli uomini che dormivano nudi a causa della notte calda e che erano villosi davanti e didietro, come se tutto l’equipaggio raccolto a bordo dell’Italia fosse la progenie di Agostini, lo prendeva in giro, perché il mio buon gigante era glabro e non aveva un pelo, né sul ventre né sul petto. Aveva un tatuaggio sotto il seno sinistro, a forma di piccola bocca umana. Lui sosteneva che fossero i segni del morso di una murena, che gli aveva iniettato il veleno nel cuore mentre, come Ercole bambino, nel sonno aveva strangolato il serpente marino che era andato ad infilarsi nella sua culla, il cui veleno gli aveva fatto cadere più tardi peli e capelli – e senza curarsi dei motteggi, Domenico apriva il suo baule di marinaio da cui estraeva vasetti e flaconcini di pomate e di acque veneree con le quali si cospargeva e ungeva dappertutto. Ma dal suo baule tirava fuori anche i pezzi del suo tesoro intimo: un battello in bottiglia, spiegandomi com’era fabbricato, delle cartoline illustrate di città e porti asiatici, una stella di mare, un ippocampo, un rametto di corallo che mi premeva nelle mani, una grande conchiglia dei mari del Sud che mi metteva contro l’orecchio, ed io finivo nonostante tutto per addormentarmi, malgrado le risate, le bestemmie, il vociare, lo strascicare di piedi, il forte odore di urina e di sudore, i miasmi della cabina dell’equipaggio, dove si respirava a fatica, e l’inevitabile melodia col mandolino, sulla soglia, e la voce da tenorino
Vieni sul mar!
Vieni a vogar!
Sentirai l’ebbrezza
Del tuo marinar…
All’atterraggio a Napoli, come d’accordo, il caro Domenico mi nascose nella cabina deserta, occultandomi nella sua cuccetta, e perché la gobbetta che formavo sotto la coperta non si notasse, ci gettò sopra l’incerata e i corpetti sporchi, come se si fosse appena cambiato, e, prima di uscire, sul mucchio ci buttò anche la chitarra del monogambista. Io non potevo muovermi, e fu col cuore in gola e l’orecchio teso che udii il fracasso del tamburo del cabestano che ruotava proprio sopra la mia testa, un’ancora cadere in acqua, una sirena e dei fischi, grida e vocìo, il sibilo delle vedette a vapore dell’autorità portuale che accostavano alla nave, il frastuono delle carrucole, poi le discussioni e il lungo mercanteggiare dei battellieri che venivano ad imbarcare i passeggeri, ché a quei tempi remoti un transatlantico del pescaggio dell’Italia non poteva ancora attraccare. Poi, per due o tre volte, e non so in capo a quanto tempo, perché il tempo mi sembrava tremendamente lungo, mi parve d’esser chiamato per nome, però io soffocavo e mi addormentai, asfissiato dall’odore di piedi del gigante e i miasmi farmaceutici degli unguenti e dei liquidi, di cui faceva un uso forsennato e che impregnavano tutta la cuccetta.
Più tardi, nostro padre raccontava spesso quest’avventura napoletana e affermava, prove alla mano, che avevo rischiato di essere vittima di un sequestro eseguito da un membro della Mano Nera. Ma che ne sapeva della Mano Nera, il nostro povero padre, lui che alcuni anni dopo fu defraudato con un semplice trucco contabile della sua lottizzazione del Vomero dal suo commercialista, in cui aveva posto tutta la sua fiducia e che era un affiliato di quella società segreta; lui che fu rovinato anche dagli avvocati napoletani che gli erano stati raccomandati in alto luogo e che dovevano essere i membri dirigenti della congrega. Solo la mamma, che aveva dato a Domenico dieci, venti, o cinquanta monete d’oro, uno, due o tre rotoli di sovrane perché mi ritrovasse, e che non faceva mai parola di quell’avventura, aveva indovinato una parte della verità: che io avevo il cuore infranto per il tradimento del marinaio, motivo per cui rimase sempre in apprensione a mio riguardo.
… Ricordo che quando Domenico venne a cavarmi fuori dal sonno, credevo fossimo a New York, e la mia disillusione fu immensa quando Domenico, stringendomi forte tra le braccia, attraversò il ponte di prua e cominciò a salire la scala che conduceva alla passerella illuminata dell’Italia, dove m’aspettavano mamma, l’orribile comandante dalla faccia di cane e due o tre ufficiali del bastimento, tra cui il commissario. Era buio. Un altro bambino si sarebbe dibattuto, avrebbe pianto, strillato, graffiato con le unghie il viso di quella canaglia di marinaio traditore. Certo, la voglia non mi mancava di mordergli le orecchie, di fargli schizzare come sangue nero la cicca dalla bocca, appioppandogli un bel pugno sulla punta del mento, di riempirlo di calci nel basso ventre, però non dicevo niente, trattenevo il fiato, e mentre il gigante saliva le scale, io mi facevo sempre più pesante tra le sue braccia, scalino dopo scalino, pesante come il bambinello di cui parla San Cristoforo, da cui fu svegliato una notte di pioggia perché lo portasse sulla riva opposta di un fiume in piena, che si issò sulle spalle e che, una volta nel mezzo del fiume, si fece così pesante, così pesante che San Cristoforo credette che non ce l’avrebbe mai fatta. E il buon traghettatore commentò: Quella notte là mi è toccato di portare addosso tutto il Dolore del mondo.
Mia madre mi stringeva al suo seno.
Io ero triste.
Poi mi ammalai.
– Non è niente sa, signora, disse il dottore. Una semplice malattia infantile. Una cosa classica. Niente di grave. Latte, riposo, sciroppo e si rimetterà. Un’infusione alla sera o un po’ d’acqua di fiori d’arancio, alcune gocce bastano, fan dormire…
Blaise Cendrars, Bourlinguer, Denoël Parigi 1948.
“Buon Natale! Ho appena finito un libro da ira di Dio!”. È in questi termini trionfali che Cendrars annuncia all’amico Henry Miller, alla fine di dicembre 1947, la fine di Bourlinguer.
Bourlinguer rappresenta il terzo capitolo di quattro scritti autobiografici apparsi da Denoël nel secondo dopoguerra, che Cendrars definisce “memorie che non sono memorie”: L’Homme foudroyé, 1945; La Main coupée, 1946 (tradotto e pubblicato in Italia col titolo “La mano mozza”); Bourlinguer, 1948; Le Lotissement du ciel, 1949. Bourlinguer è un libro per lingua e per stile vertiginoso, vorticoso, caleidoscopico. Nasce dalle macerie delle due guerre mondiali, onnipresenti nei suoi effetti, la prima avendo segnato per sempre il destino di uomo e di poeta di Cendrars, con il sacrificio del suo braccio destro; con la seconda è tutta la cultura europea del classicismo e delle avanguardie, con le loro sperimentazioni formali, che entra in crisi. Il ritmo sconnesso e sincopato della scrittura di Bourlinguer è espressione del disordine generale, della catastrofe totale, della relatività universale che guida la storia dell’uomo, è una scrittura postapocalittica, pervasa tuttavia, o forse proprio in reazione a ciò, da una forte tensione umanistica e morale di fondo, che porta Cendrars a interrogare sé stesso, mettendosi a nudo, nell’autonalisi dei sette vizi capitali; denunciando lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il lavoro che aliena, l’arbitrarietà del potere, la guerra. Bourlinguer è un libro sulla memoria, che opera sul tempo e la storia come su un palinsesto continuamente reinventato e riscritto.
Qui si presenta il capitolo “Napoli” in cui si narra della traversata, sulla nave Italia, da Alessandria d’Egitto a Napoli. Cendrars rivive il suo arrivo nella città partenopea insieme alla famiglia, dove resterà 2 anni, dal 1894 al 1896, periodo che rappresenta il tema centrale del capitolo 8, Genova.
Bruno di Biase
Ho letto di una traduzione italiana di Bourlinguer di Cendrars a cura di Bruno di Biase (già su articoli datati 2016), ma non sono riuscito a trovare il libro. Bisogna ancora attendere per poterlo leggere?