Il vento del futuro, di Giuseppe Zuccarino
Baudelaire sosteneva di essere stato, fin dall’infanzia, insaziabile nell’ammirare le opere d’arte. Dapprima, com’è ovvio, il suo era un gusto innato, più che dettato dalla ragione: «Non avevo altra esperienza se non quella che deriva da un amore eccessivo, né altro discernimento che l’istinto. Vero è che questo amore e quest’istinto erano notevolmente intensi, giacché, nella loro stessa giovinezza, i miei occhi colmi d’immagini dipinte o incise non avevano mai potuto saziarsi, e credo che i mondi potrebbero finire, impavidum ferient, prima che io possa diventare iconoclasta» [1]. E in effetti, da adulto, non gli mancheranno né una grande familiarità con le opere d’arte della sua epoca, né la capacità di sviluppare, a partire da esse, concezioni estetiche nuove e significative. Lo dimostrano sia l’ampia mole dei suoi scritti sulla pittura, sia l’acuto discernimento che gli ha permesso di individuare sovente, tra gli artisti contemporanei, i più significativi. Lo ha riconosciuto Paul Valéry: «Baudelaire critico non si è mai sbagliato. Voglio dire che da più di settant’anni, a dispetto delle frequenti variazioni dell’umore estetico, tutti coloro che egli ha apprezzato, considerato di talento e di genio, non hanno smesso di valere e di crescere. Che si tratti di Poe, di Delacroix, di Daumier, di Corot, di Courbet – forse anche di Guys –, che si tratti di Wagner, che si tratti infine di Manet, chiunque egli abbia ammirato resta degno di ammirazione. Quella sorta di sensualità ragionata che gli fu propria ha presagito, o orientato, il gusto successivo, il gusto che sarebbe stato quello degli spiriti più ragguardevoli verso la fine del XIX secolo» [2].
Non a tutti i pittori citati Baudelaire attribuiva uguale valore: è ben nota la sua predilezione per Eugène Delacroix, mentre nei riguardi di altri il suo giudizio positivo si accompagnava ad alcune riserve. Così, per esempio, egli non sembra aver colto appieno l’importanza delle opere di Édouard Manet, nonostante l’amicizia che lo legava a questo artista. Saranno altri due scrittori, Zola e Mallarmé, a difendere più validamente Manet dalle polemiche dei critici ostili e a sottolineare le componenti innovative dei suoi quadri [3]. La sintonia soltanto parziale tra il poeta delle Fleurs du Mal e Manet si spiega anche con fattori di ordine anagrafico: Baudelaire, infatti, era più anziano di undici anni rispetto al pittore. Inoltre, risiedendo in Belgio dal 1864 fin quasi alla morte avvenuta nel 1867, ha avuto modo di seguire solo la prima parte del percorso artistico di Manet.
Secondo la testimonianza di un amico di quest’ultimo, Antonin Proust, «verso il 1860 Manet e Baudelaire furono strettamente legati» [4]. Ma dovevano già essere in confidenza l’anno precedente, visto che, nel momento in cui al pittore era giunta la notizia che il suo quadro Le Buveur d’absinthe era stato rifiutato al Salon, il poeta si trovava con lui e lo aveva invitato a non dar peso ai giudizi negativi, sostenendo che, in conclusione, «bisogna essere se stessi» [5]. A partire dal 1861, Manet «andava quasi ogni giorno, dalle due alle quattro, alle Tuileries, dove faceva degli studi all’aria aperta, sotto gli alberi, raffigurando i bambini che giocavano e i gruppi di balie […]. Lì, Baudelaire era il suo compagno abituale» [6].
Anche se, negli scritti pubblicati in vita dal poeta, il nome di Manet compare solo in rarissime occasioni, tenendo conto delle lettere e dei dati biografici si ottiene un’immagine più completa e fedele del loro rapporto. Negli articoli baudelairiani, incontriamo accenni al lavoro di Manet solo a partire dal 1862. È infatti in due contributi di taglio giornalistico che l’artista viene inizialmente ricordato. Nel primo, apparso peraltro senza firma, leggiamo che «anche André Jeanron, [Théodule] Ribot e Manet hanno portato a termine alcune prove di acquaforte, a cui Cadart ha concesso l’ospitalità della sua vetrina in rue Richelieu» [7]. Il riferimento è all’incisione Un guitarero, che Manet aveva tratto dal proprio quadro Le Chanteur espagnol, esposto con successo al Salon del 1861. Al dipinto, Baudelaire fa riferimento nel secondo articolo, Peintres et aqua-fortistes, in cui la comparsa del pittore è meno fuggevole: «Manet è l’autore del Guitariste, che ha suscitato una forte impressione all’ultimo Salon. Quando si aprirà il prossimo, si potranno ammirare di lui numerosi quadri di un sapore spagnolo intensissimo, da far pensare che il genio iberico abbia trovato asilo in Francia. Manet e [Alphonse] Legros uniscono a un gusto deciso per la realtà, la realtà moderna – il che è già un buon sintomo –, quell’immaginazione viva e ampia, sensibile, audace, senza cui, bisogna proprio dirlo, tutte le migliori facoltà sono soltanto servitori senza padrone, agenti senza governo» [8]. E più oltre nell’articolo, Manet viene associato a Legros e a Johan Barthold Jongkind, in quanto tutti e tre sono pittori dotati «di un talento maturo e profondo» [9].
Baudelaire ha apprezzato e incoraggiato la vena spagnoleggiante di Manet, in una maniera che oggi può apparire discutibile, ma le sue considerazioni restano significative. Da un lato, la difesa dell’immaginazione ricorda il fatto che, già in tre testi degli anni precedenti, egli l’aveva definita «la regina delle facoltà» [10]. Dall’altro, l’elogio del gusto di Manet e Legros per la realtà moderna rimanda ancor più indietro, a quel Salon de 1845 in cui egli aveva espresso con forza l’auspicio che l’arte potesse rinnovarsi traendo ispirazione dal presente anziché dal passato: «Nessuno tende l’orecchio al vento che soffierà domani; e tuttavia l’eroismo della vita moderna ci circonda e ci incalza. […] Il pittore, il vero pittore sarà colui che saprà strappare alla vita odierna il suo lato epico, e farà vedere e comprendere, mediante il colore o il disegno, quanto siamo grandi e poetici con le nostre cravatte e le nostre scarpe di vernice» [11]. Le due osservazioni si completano a vicenda: gli artisti vengono invitati a prendere spunto dalla realtà attuale, ma nel contempo viene loro ricordata la necessità di far ricorso all’immaginazione.
Ed è proprio quel che farà Manet dipingendo nel 1862 La Musique aux Tuileries. Questa composizione raffigura una scena di vita parigina, e tuttavia l’artista inserisce tra i molti personaggi presenti nel quadro, oltre a se stesso e al fratello Eugène, anche pittori e scrittori a cui si sente vicino, come Henri Fantin-Latour, Zacharie Astruc, Champfleury e lo stesso Baudelaire. L’immagine del volto di quest’ultimo è sfocata, ma per accertarsi che si tratti proprio di lui basta confrontarla con la coeva acquaforte di Manet nella quale il poeta viene rappresentato di profilo e con un cappello a cilindro [12]. Sempre nel 1862 il pittore esegue il quadro La Maîtresse de Baudelaire couchée, che ritrae Jeanne Duval, la più celebre tra le amanti del poeta. Come osserva Françoise Cachin, «questo ritratto rimase nell’atelier del pittore, il che lascia supporre che lo stesso Baudelaire non abbia apprezzato la tela. Nel 1859, la giovane donna fu colpita da un attacco di emiplegia, il che spiega la posa strana e la gamba rigida che esce da sotto l’abito bianco» [13]. L’aspetto inconsueto del quadro è stato colto assai bene da un acuto e originale critico di fine Ottocento, Félix Fénéon: «Nobilitata dalla stranezza e dai ricordi, un’altra tela mostra la storica amante di Baudelaire, la bizzarra e dolorosa creola Jeanne Duval. Presso una finestra su cui fluttua il bianco delle tende, lei si mostra indifferente, simile a un idolo e a una bambola. […] Il suo volto camuso e abbrunito desiste da ogni emozione. Ondula in larghezza l’immenso e paradossale dispiegarsi di un abito estivo a righe larghe, viola e bianche» [14].
I rapporti tra Baudelaire e Manet restano comunque buoni. Lo conferma una lettera indirizzata dal poeta alla madre del pittore, in cui si legge: «Quanto ai sentimenti che posso avere per vostro figlio, voi sapete che non ne ho gran merito, e ciò che dite a questo proposito è troppo gentile, giacché mi pare molto difficile non amare il suo carattere così come il suo talento» [15]. Non sorprende dunque il fatto che, quando Manet espone nel 1863, alla galleria di Louis Martinet, il dipinto Lola de Valence (che ritrae una danzatrice spagnola), il quadro presenti sulla cornice la trascrizione di una quartina scritta appositamente da Baudelaire: «Fra tante bellezze visibili ovunque / capisco bene, amici, che il desiderio oscilli, / ma in Lola di Valenza si vede scintillare / il fascino inatteso di un gioiello rosa e nero» [16]. La quartina compare anche in calce a un’acquaforte che l’artista ricava dal quadro [17]. Sarà infine ripresa nella raccolta baudelairiana Les Épaves, accompagnata da una nota attribuita all’editore, ma dovuta in realtà al poeta stesso: «Questi versi sono stati composti per servire da iscrizione a un meraviglioso ritratto della signorina Lola, ballerina spagnola, opera di Édouard Manet, quadro che, come tutti quelli del pittore, ha fatto scandalo. – La musa di Charles Baudelaire è così generalmente sospetta che si è riusciti a trovare dei critici di terz’ordine per scovare un senso osceno nel gioiello rosa e nero. Da parte nostra, crediamo che il poeta abbia voluto semplicemente dire che una bellezza dotata di un carattere nel contempo tenebroso e allegro faceva pensare all’associazione del rosa e del nero» [18].
Il 1863 è un anno decisivo nella produzione dell’artista, in quanto vede la nascita di due dei suoi massimi capolavori: Le Déjeuner sur l’herbe e Olympia. Il primo dei quadri citati viene respinto dall’esposizione ufficiale, ma è reso fruibile al pubblico nel celebre Salon des Refusés, dove suscita polemiche specialmente per il soggetto trattato (una donna nuda seduta su un prato accanto a due uomini vestiti). Baudelaire non si pronuncia sul dipinto, e neppure – cosa ancor più significativa – fa alcun esplicito riferimento a Manet in Le Peintre de la vie moderne, ampio e importante saggio incentrato su Constantin Guys [19]. L’associazione tra quest’ultimo artista e la formula del titolo non manca di stupire, come ha notato Roberto Calasso: «Quando si trattò di individuare chi fosse “il pittore della vita moderna”, [Baudelaire] fece cadere la scelta su un ignoto, privo di qualsiasi protezione accademica, un reporter per immagini […]. Un illustratore (degradata genia) veniva additato come esempio, veniva preferito a Delacroix, a Manet. Scelta che anche oggi imbarazza. Vari storici dell’arte non riusciranno a capacitarsene. Ma come, un “incantevole peso leggero” quale Guys, che stenta a trovare anche una minuscola nicchia nei manuali, anteposto al grande Manet?» [20].
Una possibile spiegazione è stata intuita da Théophile Gautier: «Certamente egli [Baudelaire] sapeva tutto ciò che mancava a questi rapidi schizzi, a cui lo stesso Guys non attribuiva alcuna importanza […]; ma era colpito da questo spirito, dalla sua chiaroveggenza e potenza di osservazione, qualità tutte letterarie espresse tramite un mezzo grafico. Amava in quei disegni la completa assenza di antichità, cioè di tradizione classica» [21]. A conferma di ciò, si legga il seguente passo di Le Peintre de la vie moderne: «Se un pittore paziente e scrupoloso, ma di immaginazione mediocre, dovendo dipingere una cortigiana dei nostri giorni, si ispira (è l’espressione consacrata) a una cortigiana di Tiziano o di Raffaello, è altamente probabile che egli produrrà un’opera falsa, ambigua e oscura. Lo studio di un capolavoro di quel tempo e di quel genere non gli può insegnare né l’atteggiamento, né lo sguardo, né la maschera, né l’aspetto vitale di una di quelle creature che il dizionario della moda ha via via classificato sotto le voci grossolane o scherzose di svergognate, mantenute, lorettes, bambole. […] Guai a chi nell’antico studia qualcosa che non sia l’arte pura, la logica, il metodo generale! Per immergervisi oltre il dovuto, egli perde la memoria del presente, abdica al valore e ai privilegi offerti dalla circostanza, poiché quasi tutta la nostra originalità proviene dal marchio che il tempo imprime sulle nostre sensazioni» [22].
Non è troppo azzardato pensare che Baudelaire stia qui alludendo a Manet, e più precisamente alle due opere che il pittore ha realizzato quell’anno. Infatti Olympia, che rappresenta appunto una cortigiana moderna, prende a modello la Venere di Urbino di Tiziano, mentre Le Déjeuner sur l’herbe si ispira sia a un’incisione cinquecentesca di Marcantonio Raimondi tratta da un disegno di Raffaello, sia al Concerto campestre di Tiziano (un tempo attribuito a Giorgione). Ma qui occorre dire che il poeta si mostra poco comprensivo, giacché richiamarsi all’arte del passato non impedisce affatto di produrre del nuovo, anzi spesso è proprio ciò che permette l’innovazione. Tornano utili le riflessioni di un grande storico dell’arte, Aby Warburg, a proposito di Le Déjeuner sur l’herbe: «Di fronte a quest’opera, innalzata come un vessillo nella lotta contro le catene del virtuosismo accademico verso una redenzione apportatrice di luce, sembra alquanto superfluo l’approccio astratto che consisterebbe nel tracciare uno sviluppo lineare nei secoli […]. Eppure Manet, battendosi per il diritto umano allo sguardo, aveva evocato l’esempio di Giorgione per sostenere che la rappresentazione all’aperto di uomini vestiti e di donne nude non era di per sé una realtà rivoluzionaria. Dobbiamo dunque immaginare Manet, pittore che progrediva verso la luce, come un artista che si volgeva indietro, come un fedele amministratore della tradizione? Dopotutto, grazie alla sua creazione immediata, il mondo ha appreso anzitutto la possibilità di creare valori espressivi capaci di dar vita a un nuovo stile. Tale possibilità è offerta solo a coloro che partecipano all’eredità spirituale complessiva. Simili valori traggono la loro forza penetrativa non dalla rimozione delle forme antiche, ma dalla nuance che apportano alla rielaborazione di tali forme» [23].
Nel 1864 Baudelaire interviene più volte, sia pure in forma privata, a favore dell’amico. Nel mese di marzo indirizza una lettera all’organizzatore del Salon chiedendogli di avere un occhio di riguardo per due artisti in particolare: «Desidero raccomandarle vivamente due miei amici […], Manet e Fantin. Manet invia un Épisode d’une course de taureaux, e un Christ ressuscitant, assisté par les anges, mentre Fantin invia un Hommage au feu Eugène Delacroix e Tannhäuser au Vénusberg. Vedrà quali meravigliose facoltà si rivelano in tali quadri. Qualunque sia la categoria in cui vengono inseriti, faccia il possibile per trovar loro una buona collocazione» [24]. A proposito del Christ aux anges, il poeta suggerisce a Manet di fare una correzione al proprio dipinto: «Sembra decisamente che il colpo di lancia sia stato inflitto a destra. Bisognerà dunque che andiate a cambiar posto alla ferita, prima dell’apertura [del Salon]. Verificate dunque la cosa nei quattro evangelisti, e fate attenzione a non fornire ai malevoli un pretesto per ridere» [25]. Non va trascurato neppure il giudizio positivo espresso sull’Hommage à Delacroix di Fantin-Latour: nel quadro, infatti, l’artista ha rappresentato, davanti a un ritratto di Delacroix (morto l’anno prima), non soltanto se stesso, ma anche un piccolo gruppo di scrittori e pittori tra cui figurano, l’uno accanto all’altro, Manet e Baudelaire [26].
Quest’ultimo, ormai trasferitosi a Bruxelles, torna a occuparsi dell’amico scrivendo una lettera a Théophile Thoré, il quale aveva da poco pubblicato in «L’Indépendance belge» un resoconto del Salon parigino. L’autore dell’articolo, pur essendo in generale benevolo verso Manet, gli rimproverava la tendenza a imitare i grandi pittori spagnoli. Baudelaire replica in questi termini: «Manet, che viene creduto un pazzo furioso, è invece un uomo molto leale, molto semplice, che fa di tutto per essere ragionevole, ma sfortunatamente è stato segnato dal romanticismo fin dalla nascita. Il termine imitazione non è giusto. Manet non ha mai visto Goya, non ha mai visto Greco. […] Ciò vi sembrerà incredibile, ma è vero. Io stesso ho ammirato, stupefatto, tali misteriose coincidenze. Manet, all’epoca in cui noi godevamo di quel meraviglioso museo spagnolo […], era un ragazzino e serviva a bordo di una nave. Gli hanno tanto parlato delle sue imitazioni da Goya che adesso cerca di vedere dei Goya. È vero che ha visto dei Velázquez» [27]. Il giudizio espresso sul pittore non è del tutto positivo, né corretto nei particolari. Il museo a cui si riferisce Baudelaire, e che si trovava all’interno del Louvre, aveva in effetti chiuso i battenti nel 1848, ma, secondo la testimonianza di Antonin Proust, quella galleria «era stata visitata spesso da Manet durante l’infanzia», e da allora «egli aveva sempre un’idea fissa: ritrovare i pittori spagnoli e vedere la Spagna» [28]. Cosa che farà l’anno successivo rispetto a quello della lettera baudelairiana, rimanendo impressionato in particolare dalle opere di Velázquez, El Greco, Ribera e Goya.
Prima nel febbraio 1864 e poi, con varianti, nel mese di novembre, viene pubblicato un poème en prose di Baudelaire che reca il titolo La Corde [29]. La dedica «A Édouard Manet» (presente solo nella prima versione) si spiega col fatto che all’origine del testo c’è un episodio reale, raccontato dal pittore al poeta. Manet aveva preso con sé un ragazzino, Alexandre, che lo aiutava pulendo i pennelli o la tavolozza e qualche volta facendogli da modello, come nel caso del dipinto L’Enfant aux cerises e di due lavori grafici [30]. Alexandre, però, aveva un carattere incline alla malinconia e un giorno, rimasto solo nell’atelier, si era impiccato. Quando il pittore, rientrando nello studio, scoprì il corpo senza vita del ragazzino, «fu assai colpito dalla tragica fine di quel piccolo essere, a cui voleva molto bene» [31]. La vicenda funge da punto di partenza per il poème en prose di Baudelaire, il quale finge di cedere la parola a un amico pittore, che tuttavia è solo in parte identificabile con Manet [32].
Nel poème en prose, l’artista racconta come, una volta notato un ragazzino il cui aspetto gli sembrava interessante, aveva ottenuto dalla famiglia di lui, povera di risorse, il permesso di prenderlo con sé in cambio di qualche soldo. Il fanciullo era ben lieto del cambiamento di domicilio, ma col tempo aveva manifestato un difetto: il gusto smodato per dolciumi e liquori. Il pittore, accortosi del fatto che il ragazzo se ne appropriava di nascosto e con frequenza, aveva minacciato di rimandarlo dai suoi genitori. Conosciamo già la reazione, eccessiva e imprevedibile, del piccolo. Quando l’artista lo ritrova impiccato allo sportello di un armadio, resta sorpreso e inorridito. Un medico constata il decesso e un commissario di polizia, pur mostrandosi sospettoso, non dà seguito ad indagini. All’artista spetta l’ingrato compito di informare i genitori del ragazzo. La cosa, però, si rivela non traumatica, giacché il padre dichiara che suo figlio era comunque destinato a finir male, mentre la madre appare stranamente impassibile. Nondimeno, lei chiede di vedere il luogo preciso in cui è avvenuta l’impiccagione e, quando scorge il pezzo di corda che penzola da un chiodo piantato nel legno dell’armadio, muta di colpo atteggiamento, supplicando il pittore di cederle sia il chiodo che la corda. Il pittore dapprima crede che la donna voglia conservarli come una sorta di reliquia, ma si ravvede presto. Infatti, il giorno dopo, riceve varie lettere di persone che vorrebbero ottenere da lui un pezzetto della suddetta corda. Gli torna allora in mente la credenza popolare che attribuiva poteri magici alla corda di un impiccato e capisce che la madre aveva voluto ottenerla non in ricordo del figlio, bensì per fare di essa l’oggetto di un lucroso commercio. Questo finale fa apparire ancor più sarcastiche le parole attribuite al pittore: «È altrettanto difficile immaginare una madre priva di amore materno che una luce senza calore; non è dunque perfettamente legittimo attribuire all’amore materno tutte le azioni e le parole di una madre relative al proprio figlio?» [33]. Come ha notato Antoine Compagnon, se si volesse far coincidere l’artista di cui si parla nel brano con Manet, l’immagine offerta di quest’ultimo sarebbe poco lusinghiera: «Il pittore diventa sempre più sgradevole nel corso del poème; egli, che ha assunto il ragazzino, non pensa alla propria responsabilità in un suicidio avvenuto dopo i rimproveri che gli aveva rivolto per delle inezie» [34].
Nel 1865, Manet esegue un nuovo ritratto ad acquaforte di Baudelaire, prendendo a modello una foto scattata da Nadar [35]. Quell’anno può dirsi nel contempo cruciale e difficile per l’artista. Infatti, quando il suo quadro Olympia viene esposto al Salon, l’irritazione del pubblico e le stroncature da parte dei critici raggiungono il culmine [36]. Anche stavolta il poeta non si pronuncia in forma pubblica riguardo al dipinto, forse perché, trovandosi a Bruxelles, non ha modo di rivederlo al Salon parigino. Tuttavia egli resta in contatto con l’artista tramite le lettere.
In una di esse, cerca di confortare – pur facendolo con modi un po’ bruschi – l’amico, depresso a causa dell’accoglienza negativa ricevuta dalla sua opera: «Bisogna dunque che vi parli ancora di voi. Occorre che mi sforzi di dimostrarvi il vostro valore. È davvero sciocco ciò che esigete. Ci si prende gioco di voi, gli scherzi vi irritano, non si sa rendervi giustizia, ecc. ecc. Credete di essere il primo uomo in questa situazione? Avete forse più genio di Chateaubriand e di Wagner? Non ci si è presi gioco anche di loro? Non ne sono mica morti. E per non ispirarvi troppo orgoglio, dirò che quei due uomini sono dei modelli, ognuno nel suo genere e in un mondo assai ricco, mentre voi non siete che il primo nella decrepitezza della vostra arte. Spero che non me ne vorrete per la sfacciataggine con cui vi tratto» [37]. Nella stessa missiva il poeta si dice d’accordo col giudizio espresso da un suo conoscente belga riguardo alle opere di Manet: «“Ci sono difetti, debolezze, una mancanza di equilibrio, ma anche un fascino irresistibile”. Tutto questo lo so; sono uno dei primi ad averlo compreso. Ha aggiunto che il quadro che raffigura la donna nuda, con la negra e il gatto (è un gatto, vero?), era molto superiore al quadro religioso» [38].
Baudelaire fa pervenire all’artista un messaggio analogo in maniera indiretta, tramite un’amica comune: «Quando vedrete Manet, ditegli ciò che vi dico, ossia che la piccola o grande graticola, la presa in giro, l’insulto, l’ingiustizia sono cose eccellenti, e che si mostrerebbe ingrato se non ringraziasse tale ingiustizia. So bene che stenterà a capire la mia teoria; i pittori vogliono sempre dei successi immediati. Ma in verità Manet ha delle doti così brillanti e sottili che sarebbe un peccato se si scoraggiasse. Non colmerà mai del tutto le lacune del suo temperamento. Ma ha un temperamento, ed è questo che conta» [39].
Agli occhi del poeta, il fatto che l’artista possieda grandi qualità e uno stile individuale non basta per sottrarlo alla «decrepitezza» in cui versa la pittura in quel momento storico. Georges Bataille ha scritto, in riferimento a Baudelaire: «Gli sfuggiva il fatto che Manet proprio da quella decrepitezza traeva, rompendo con l’ordine del passato, una contropartita positiva che non conobbero né Ingres, né Delacroix, né Courbet (e che lasciava fuori Corot). L’esaurirsi della pittura eloquente, che nulla di vero animava più, apriva le vie di una nuova forma di pittura, che oggi ci è familiare, ma che nessuno aveva scorto in anticipo, e che era stata raggiunta solo dalle strane reazioni e dalla ricerca azzardata, angosciata, di Édouard Manet» [40].
Un altro significativo contatto epistolare con l’artista si ha qualche mese dopo. L’editore Auguste Poulet-Malassis è in possesso del ritratto di Baudelaire realizzato da Gustave Courbet, ma trovandosi in difficoltà economiche intende venderlo. Il poeta chiede a Manet se sia interessato all’acquisto: «Dato che non posso comprarlo io stesso, ho detto a Malassis che vorrei almeno che finisse in casa di un amico. […] Conoscete il ritratto, eseguito, io credo, nel 1850? – La dimensione è pressappoco di un metro, forse un po’ meno. Il personaggio, vestito con una giacca da camera rossa, seduto su un canapè rosso, sta lavorando su un tavolo rosso. L’effetto è piuttosto sorprendente. – Dimenticavo di dire che il quadro è di Courbet» [41].
I due anni successivi costituiscono il periodo più doloroso nella vita del poeta. A fine marzo 1866, per effetto di un ictus, viene colpito da emiplegia e trasportato in ospedale. Da quel momento, soffrirà anche di turbe cerebrali e disturbi del linguaggio. Qualche mese dopo, con l’assistenza della madre e di un amico belga, Arthur Stevens, viene ricondotto a Parigi e accolto in una casa di salute, quella del dottor Émile Duval. Nella stanza che occupa, e da cui è in grado di uscire solo di rado, sono appesi alle pareti due quadri di Manet. L’artista gli fa visita più volte, da solo o accompagnato dalla moglie Suzanne (la quale allieta il malato suonandogli al pianoforte musiche di Wagner). Ben presto le condizioni di Baudelaire peggiorano ulteriormente: diviene quasi del tutto afasico e non può più alzarsi da letto. Muore il 31 agosto 1867; le esequie hanno luogo il 2 settembre, con la partecipazione di alcuni scrittori e artisti, tra cui Manet [42]. Si ritiene che un suo quadro di quell’anno, L’Enterrement, raffiguri appunto il funerale del poeta: «Sotto un cielo burrascoso, in un paesaggio triste, un esile corteo segue un carro funebre verso il cimitero Montparnasse; in lontananza, si scorgono la chiesa del Val-de-Grâce, la montagna Sainte-Geneviève e la cupola del Panthéon» [43].
Termina così la storia di un’amicizia singolare, non proprio equilibrata sui suoi due versanti: «Nessun artista ha mai fatto altrettanto per piacere a Baudelaire, per dar forma alle idee da lui espresse in Le Peintre de la vie moderne e per farlo interessare a una pittura nuova. Da parte sua Baudelaire, ad eccezione di poche righe nel suo studio sugli acquafortisti, della quartina su Lola e di alcuni incoraggiamenti orali o epistolari, non ha mai riconosciuto pubblicamente la novità e il genio di Manet, benché questi fossero percepibili nelle prime opere […]. Nulla, nell’opera intima o pubblicata, permette di dedurre che egli nutrisse per Manet la stessa ammirazione che aveva votato a Delacroix, poi a Constantin Guys» [44].
Nonostante ciò, l’arte del pittore andrà incontro a importanti sviluppi, nei decenni successivi alla scomparsa del poeta. L’evoluzione stilistica di Manet viene sintetizzata, con elegante precisione, da Fénéon: «Verso il principio della terza Repubblica, un gruppo di artisti, quelli che ben presto sarebbero stati designati col nome di “impressionisti”, cominciava a turbare la folla e a imporsi ad alcuni amatori più perspicaci. Essi sostituivano con entusiasmo una “verità” fresca alle “verità” anteriori, altrettanto legittime forse, ma che si erano inaridite con l’uso. Allo stesso modo in cui Manet, nel quale volentieri riconoscevano uno dei loro precursori, aveva influito su di loro, essi influirono su di lui: la sua tavolozza si purifica, le ombre del suo Jardin ensoleillé si tingono di viola conformemente alla dottrina, egli si costringe, in teoria se non in pratica, alla disciplina all’aria aperta, e, ripudiando i temi tradizionali sui quali aveva speculato, assume le sembianze di un descrittore della vita francese e contemporanea. Una nuova estetica è un eccitante, – e siccome, sotto un aspetto ringiovanito, le sue qualità congenite erano rimaste intatte, ha composto, nel periodo di dieci o dodici anni che si apriva allora, una serie di opere tanto ricche di sostanza, gustose, irritanti e singolari quanto quelle che gli avevano assicurato la fama» [45].
Nel 1845, Baudelaire auspicava un’arte nuova, che fosse meno vincolata alle convenzioni accademiche e più incline a porsi in sintonia con la vita moderna, e si rammaricava asserendo che «nessuno tende l’orecchio al vento che soffierà domani» [46]. Ma forse un suo limite, nei due decenni successivi, è stato proprio quello di non aver saputo cogliere appieno il fatto che, grazie alla pittura di Manet, quel vento aveva già cominciato a soffiare.
NOTE:
[1] Charles Baudelaire, Salon de 1859, in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 2024 (= Œ. C.), vol. I, p. 963 (tr. it. Salon del 1859, in Opere, Milano, Mondadori, 1996, p. 1203; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche). L’espressione in latino è tratta da Orazio, Odi, III, 3, vv. 7-8: «Si fractus inlabatur orbis, / impavidum ferient ruinae» (Se le sfere del cielo mai si schiantino / le rovine urteranno lui impavido), tr. it. in Tutte le opere, Firenze, Sansoni, 1968, pp. 102-103.
[2] Paul Valéry, Triomphe de Manet (1932), in Œuvres, vol. II, Paris, Gallimard, 1960; 1993, p. 1327 (tr. it. Trionfo di Manet, in Opere scelte, Milano, Mondadori, 2014, p. 896).
[3] Cfr. Émile Zola, Pour Manet, Bruxelles, Complexe, 1989 (tr. it. Manet e altri scritti sul naturalismo, Roma, Donzelli, 1993) e Stéphane Mallarmé, Édouard Manet, Mont-de-Marsan, L’Atelier des Brisants, 2006 (tr. it. Manet e gli altri. Scritti d’arte, Milano, Medusa, 2004).
[4] A. Proust, Édouard Manet. Souvenirs (1897), Paris, L’Échoppe, 1996, p. 14.
[5] Frase riferita ivi, p. 25. Tutti i dipinti dell’artista a cui faremo riferimento sono riprodotti in Françoise Cachin, Manet, Paris, Éditions du Chêne, 1990 (tr. it. Manet, Milano, Fabbri, 1991).
[6] A. Proust, op. cit., p. 29.
[7] L’eau-forte est à la mode (1862), in Œ. C., vol. II, p. 339 (tr. it. L’acquaforte è di moda, in Scritti sull’arte, Torino, Einaudi, 1981, p. 323). Alfred Cadart era un editore e stampatore, interessato soprattutto alle opere grafiche degli artisti.
[8] Peintres et aqua-fortistes (1862), in Œ. C., vol. II, p. 370 (tr. it. Pittori e acquafortisti, in Scritti sull’arte, cit., pp. 324-325).
[9] Ivi, p. 371 (tr. it. p. 326).
[10] Cfr. Exposition universelle [de 1855], in Œ. C., vol. I, p. 559 (tr. it. Esposizione universale – 1855 – Belle arti, in Opere, cit., p. 1170); Notes nouvelles sur Edgar Poe (1857), ivi, p. 631 (tr. it. Nuove note su Edgar Poe, in Opere, cit., p. 822); Salon de 1859, cit., pp. 959-960 (tr. it. pp. 1197-1198).
[11] Salon de 1845, in Œ. C., vol. I, p. 131 (tr. it. Salon del 1845, in Scritti sull’arte, cit., p. 47).
[12] L’acquaforte sarà poi ripresa nella prima edizione del libro di Charles Asselineau, Charles Baudelaire. Sa vie et son œuvre, Paris, Lemerre, 1869, illustrazione fuori testo tra le pp. 78 e 79. La si veda anche in Stéphane Guégan, Album Charles Baudelaire (= Album), Paris, Gallimard, 2024, p. 193.
[13] F. Cachin, op. cit., p. 34 (tr. it. p. 34).
[14] F. Fénéon, Calendrier de mars (1888), in Œuvres plus que complètes, Genève-Paris, Droz, 1970, vol. I, p. 103.
[15] Charles Baudelaire, lettera alla madre di Manet (Eugénie-Désirée Fournier) del 28 marzo 1863, in Correspondance, Paris, Gallimard, 1973, vol. II, p. 296 (tr. it. in Il vulcano malato. Lettere 1832-1866, Roma, Fazi, 2007, p. 306). Il poeta, del resto, non poteva esprimersi diversamente, visto che due mesi prima Manet gli aveva fatto un ingente prestito di 1000 franchi, a cui ne seguiranno altri.
[16] Lola de Valence, in Les Épaves (1866), in Œ. C., vol. II, p. 811 (tr. it. Lola di Valenza, in I relitti, in appendice a I fiori del male, Milano, Rizzoli, 1980; 2001, p. 379).
[17] L’acquaforte con i versi è riprodotta in Album, p. 200.
[18] Note de l’éditeur, in Les Épaves, cit., p. 811 (tr. it. nelle note a I relitti, cit., p. 527).
[19] Le Peintre de la vie moderne (1863), in Œ. C., vol. II, pp. 415-457 (tr. it. Il pittore della vita moderna, in Opere, cit., pp. 1272-1319).
[20] R. Calasso, La Folie Baudelaire, Milano, Adelphi, 2008, pp. 193-194.
[21] T. Gautier, Charles Baudelaire (1868), in Baudelaire, Bordeaux, Le Castor Astral, 1991, p. 95 (tr. it. in Charles Baudelaire, Roma, Castelvecchi, 2017, p. 77).
[22] Le Peintre de la vie moderne, cit., pp. 429-430 (tr. it. pp. 1287-1288).
[23] A. Warburg, Il «Déjeuner sur l’herbe» di Manet. La funzione di modello delle divinità pagane elementari in rapporto all’evoluzione del moderno sentimento della natura (1929), in Fra antropologia e storia dell’arte. Saggi, conferenze, frammenti, tr. it. Torino, Einaudi, 2021, pp. 519-520.
[24] Lettera a Philippe de Chennevières del marzo 1864, in Correspondance, cit., vol. II, pp. 350-351.
[25] Lettera a Édouard Manet di inizio aprile 1864, ivi, p. 352.
[26] L’opera è riprodotta in Album, pp. 6-7.
[27] Lettera a Théophile Thoré, circa il 20 giugno 1864, in Correspondance, cit., vol. II, p. 386 (tr. it. in Il vulcano malato, cit., p. 331).
[28] A. Proust, op. cit., pp. 26-27.
[29] La Corde (1864), in Atelier du «Spleen de Paris», in Œ. C., vol. II, pp. 898-901 (tr. it. La corda, in Lo Spleen di Parigi, in Opere, cit., pp. 438-442).
[30] Questi ultimi sono riprodotti in Andrea Schellino, Baudelaire, Manet et les illusions de «La Corde», in «Revue italienne d’études françaises», 13, 2023, pp. 1-12 (https://journals.openedition.org/rief/11724).
[31] A. Proust, op. cit., p. 26.
[32] Si veda in proposito il citato articolo di Schellino.
[33] La Corde, cit., p. 898 (tr. it. p. 438).
[34] A. Compagnon, Baudelaire. L’irréductible, Paris, Flammarion, 2014; 2021, p. 318.
[35] L’acquaforte sarà poi ripresa in C. Asselineau, op. cit., illustrazione fuori testo tra le pp. 98 e 99. Per la foto di Nadar, datata 1862, cfr. Album, p. 183.
[36] Sulle polemiche suscitate da Olympia, cfr. John Rewald, La storia dell’impressionismo (1946; nuova edizione riveduta 1973), tr. it. Milano, Mondadori, 1976; 1991, pp. 110-113, e Serena Romano, Manet 1863: Olympia, Milano, Electa, 2007.
[37] Lettera a Édouard Manet dell’11 maggio 1865, in Correspondance, cit., vol. II, pp. 496-497 (tr. it. in Il vulcano malato, cit., p. 365).
[38] Ivi, p. 497 (tr. it. pp. 365-366). Il quadro religioso di Manet, esposto assieme a Olympia, era Jésus insulté par les soldats.
[39] Lettera alla signora Meurice (Éléonore-Palmyre Granger) del 24 maggio 1865, in Correspondance, cit., vol. II, pp. 500-501 (tr. it. in Il vulcano malato, cit., p. 367).
[40] G. Bataille, Manet, Genève, Skira, 1955; 1983, pp. 43-44 (tr. it. Manet, Milano, Abscondita, 2013, p. 31).
[41] C. Baudelaire, lettera a Édouard Manet del 3 settembre 1865, in Nouvelles lettres, Paris, Fayard, 2000, pp. 108-109. Il curatore del volume, Claude Pichois (secondo cui il dipinto risale al 1847), osserva che il poeta «vede del rosso dappertutto: in effetti il canapè è rosso, ma la giacca da camera è bruno-rossiccia e il tavolo di un bruno più chiaro. Manet, di ritorno da Madrid […], il 14 settembre risponde a Baudelaire che purtroppo non può acquistare il ritratto». Quest’ultimo figura in Album, p. 91, con la data 1848.
[42] Per maggiori dettagli sugli ultimi due anni di vita e sulle esequie, cfr. Claude Pichois – Jean Ziegler, Charles Baudelaire, Paris, Fayard, 1996; nuova edizione riveduta, ivi, 2005, pp. 707-767.
[43] A. Compagnon, Préface, in Œ. C., vol. I, p. XXVIII. Al 1867 o all’anno successivo risale una terza acquaforte di Manet che raffigura Baudelaire: è riprodotta nel catalogo Mallarmé 1842-1898. Un destin d’écriture, a cura di Yves Peyré, Paris, Gallimard-Réunion des musées nationaux, 1998, p. 118. L’immagine somiglia molto a una foto del poeta scattata da Charles Neyt verso il 1865: cfr. Album, p. 226.
[44] C. Pichois – J. Ziegler, op. cit., pp. 559-560.
[45] F. Fénéon, Manet (data incerta, edito postumo nel 1948) in Œuvres plus que complètes, cit., vol. I, pp. 307-308 (tr. it. Manet, in Scritti scelti, Genova, Graphos, 1993, p. 40). Il quadro a cui si fa riferimento potrebbe essere Au jardin, del 1870.
[46] L’espressione si legge in un passo (che abbiamo richiamato in precedenza) del Salon de 1845.