Juan Rodolfo Wilcock, Il reato di scrivere, Adelphi 2009
Non di rado la letteratura diventa strumento di potere; chi ne ha le redini in mano, da quel momento se le tiene strette. La cultura si chiude in casa e si fa rappresentare dalla sua serva ch’è la sottocultura.
Il mondo letterario ha allora un suo governo il quale, come tutti i governi, tende a soddisfare anzitutto le aspirazioni dei più bestiali, cioè i più forti, tra i suoi sudditi. […]
Da Il reato di scrivere
[…] Si diceva: ogni accusa è autobiografica. Ma non si è ancora scritto il seguito della frase: solo se non è sorretta da una cosmologia o dalla sprezzatura: «Prima di ogni altra cosa» scriveva Cristina Campo «sprezzatura è una briosa, gentile impenetrabilità all’altrui violenza e bassezza, un’accettazione impassibile – che a occhi non avvertiti può apparire callosità – di situazioni immodificabili che essa tranquillamente “statuisce come non esistenti” (e in tal modo ineffabilmente modifica), ma attenzione. Non la si conserva né trasmette a lungo se non sia fondata, come un’entrata in religione, su un distacco quasi totale dai beni di questa terra, una costante disposizione a rinunciarci se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte, profonda riverenza per più alto che sé e per le forme impalpabili, ardimentose, indicibilmente preziose che quaggiù ne siano figura. La bellezza, innanzi tutto, interiore prima che visibile, l’animo grande che ne è radice e l’umor lieto». Juan Rodolfo Wilcock si ritrova tutto in queste parole di Cristina Campo. Wilcock ha il privilegio della solitudine, un privilegio intollerabile in ogni forma di società, figuriamoci in quella letteraria, che infatti, non riuscendo a inserirlo in nessuna scuderia, ha preferito dimenticarsene e passare ad altri scrittori più docilmente storicizzabili. […]
Dalla postfazione di Edoardo Camurri
Un inviato molto speciale, e le sue cronache dall’interno di quel serraglio che continuiamo a chiamare società letteraria.
Dalla quarta di copertina
J. Rodolfo Wilcock, Il reato di scrivere, Adelphi 2009. A cura di Edoardo Camurri.
Juan Rodolfo Wilcock, nato a Buenos Aires nel 1919, amico di Borges e di Bioy Casares, approdò a Roma negli anni cinquanta, quando già era autore di vari e notevoli libri in spagnolo. In Italia, riuscì a trasfondersi in un’altra lingua con un’operazione che solo a pochissimi (come a Nabokov per l’inglese) è riuscita, e cominciò a pubblicare racconti, romanzi, versi, saggi che costituiscono un’opera in quegli anni isolata e provocatoria, dove oggi ritroviamo alcuni dei libri di allora che meglio reggono al tempo e rimangono inconfondibili per l’estro: La sinagoga degli iconoclasti, pubblicato per la prima volta nel 1972, ne è un perfetto esempio. Wilcock è morto a Lubriano nel 1978. Di lui sono apparsi presso Adelphi numerosi altri titoli.