Fascinazioni

Alfonso Gatto

 

380

Al “destino” ormai chiediamo soltanto la conferma della nostra superstizione, a vantaggio o contro di noi. Lo abbiamo ridotto all’ostinata frequenza di un numero estratto. Un numero che si ripete è ormai fuori dal calcolo degli scommettitori: non se ne può far conto, ecco tutto. Il male puntuale, il bene puntuale sono soltanto “insidie”. Almeno per i meridionali, l’insidia non è un “inganno coperto”, come dicono i dizionari, ma il non-senso della precisione, della macchina che esclude l’umano, ed è contro l’uomo.

394

Penso all’ignota, all’ignoto, a cui sarò “proibito”. È un modo – l’unico – di sigillarsi l’immagine senza sospetto di morte. Solo il “peccato” è vivente, solo l’imperfezione è vitale.

400

A volte, attraversando luoghi insoliti e strani, l’accorgerci che non ne siamo sorpresi ma devoti.

402

Un malato che cerca di dire al medico i sintomi della sua sofferenza, l’intensità o il luogo del dolore spesso per la prima volta si trova a dover tradurre in parole qualcosa d’inesprimibile che ha dentro ed è soltanto “suo”. Con la salute non s’era mai accorto di sé; anche nei momenti dell’amore, nel tentare d’esprimerlo, gli era bastato convenire con le parole di tutti, usarle da uomo per la donna, da padre per i figli, da amico per l’amico e così via. Per altre gioie, per altri dolori, per altre scoperte da esclamare, gli era stato notevole aiutarsi con l’enfasi. Ora non più: ora le parole devono essere sue, e lui solo sa com’è fatto, come scompare per lasciarsi attendere. (Vorremo dire che ogni espressione è fisica e disperata) Per chi non l’ha mai avuto il male è “originale”, senza storia, quindi senza parole. Perciò da un malato che non ha compagni il medico può ricevere soltanto tentativi di suono, più che di significato nelle parole, l’inesprimibile alle prese col proprio attrito, un mugugno impedito, mai notizie. Perciò, a riportare il segno del tempo in quella natura affranta, per la prima volta esaltata dallo sgomento, a riportarvi la convenzione e la storia, ora tocca a lui far domande semplici, catechistiche, che abbino a avere per risposta un “sì” o un “no”, senza altri dubbi. (Vogliamo dire che ogni espressione è fisica e disperata: figura, gesto e vanità di linguaggio, prima che storia?) Vogliamo dirlo.

415

Le “idee”? E che contano, le idee? Conta il palpito di verità nelle parole, nella pittura. Il resto è silenzio.

424

Finiamo sempre con l’aver cura delle cose (dei sentimenti) che abbiamo lasciati decadere e rovinare per incuria: né vogliamo riconoscere che siamo vissuti per incuria e che ora imbellettiamo un cadavere (l’opinione degli altri sul nostro conto).

incominciamo a morire per restauro

441

Della nostra viltà noi finiamo col ricordare gli incidenti, gli scontri, gli ostacoli vinti o insuperabili: il tempo, cioè, in cui siamo stati “fermati”. L’amore è il grande avversario che ci ha impedito di andare oltre senza pensieri. La via libera, l’andar via lisci, spediti al successo è l’inerzia che solo i giovani si ripromettono, e nell’atto di chiedere una spinta, una mano sulla spalla che li avvii alla corsa. Ma si sa che i giovani vogliono dimenticare la giovinezza (la vita che vivono), lasciarsela dietro le spalle.

442

Ricordiamo l’amore con l’aria di amare i ricordi.

452

Spesso, nello scrivere, e per le cose che ci sembrano più inabissate, vorremmo essere noi la carta.

454

Spesso il lume che di notte vogliamo raggiungere lo abbiamo in mano.

477

Le poche volte che d’estate mi fermavo a Salerno, quando mia madre mi vedeva scrivere veniva a sedersi vicino a cucire. Tra la mia grafia continua e i suoi punti uno dietro l’altro convinti correva lo stesso pensiero. Una volta si fermò a guardarmi, mi fermai anch’io. Ripresi, riprese con un sorriso.

485

Del resto, con le persone che ci amano non abbiamo nulla da dire, o tutto da mettere a fuoco, ogni volta che si ha freddo.


A. Gatto, Pensieri, Aragno 2016. A cura di Federico Sanguineti.

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